martedì 3 gennaio 2012

Cannibali...

Che cos’è l’Amore.
Penso che l’Uomo, lungo tutta la sua vita, possa riuscire con un po’ di fortuna a capire solo quello che l’Amore non è. Perché l’Amore non è un sacco di cose. Più che altro, forse, l’Amore smette continuamente di essere qualsiasi cosa noi crediamo che sia. E, quindi, non riusciamo mai a farne una fotografia definita, per poi mostrarla e poter dire con orgoglio: “ecco, è questo”.
L’unica cosa chiara e immutabile è il come cominci. Per questo, quasi sempre, di fronte a certi potenti e travolgenti sintomi chimici si ha la netta impressione d’aver finalmente capito. Tachicardia, delirio, dispercezioni, eccitamento sessuale persistente, pensieri maniacali, a volte addirittura paranoia. Tutto ciò, immersi in una sensazione di benessere estremo. Ineguagliabile. La più potente droga del mondo.
E come ogni droga degna di questo nome, anche questa crea dipendenza.
Ma in questo caso, la droga non è un qualcosa che si assume. Qui, la droga è il desiderio stesso di quel qualcosa (“qualcuno” meglio). E’ la sensazione inebriante che ci procura quel desiderio a renderci schiavi per sempre. Poi quella qualcosa (quel “qualcuno”) tanto patologicamente desiderata la si assaggia. La si ingurgita. Fino ad abbuffarsene. E il desiderio finisce. Ci si assuefa. E di solito si cerca in qualche modo di indursi altro desiderio. Altra droga, quindi. Altro desiderio della stessa cosa (“persona”), o desiderio di altre cose (persone) più o meno simili.
Come per tutte le droghe, anche per questa esiste l’overdose.
Quando il desiderio di qualcuno cresce all’infinito. Perché non esiste un limite. E prende il posto del sonno e della fame. Gli incubi fuggono dal sonno notturno e inquinano i pensieri della veglia. Come un assetato nel deserto, si ha la sensazione di avvicinarsi alla salvezza senza mai raggiungerla, finché le distanze diventano indefinibili. E il desiderio cresce ancora. Fino a mangiarti. Un pezzo alla volta. Vivo.
Il racconto di un banchetto, questo è “Torna via”.

martedì 15 marzo 2011

La salvezza...

"anche un cuoco può essere utile in una bufera,
anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare"
(Il cuoco di Salò, Francesco De Gregori)
Pochi giorni fa il Giappone è stato annientato da uno dei terremoti più potenti della storia. Le immagini dell'onda anomala che ne è seguita, riempiono le televisioni. "Apocalisse", "ecatombe", sono alcune delle parole usate dai giornali. Diecimila morti, per ora. Un terremoto, uno tsunami e una catastrofe nucleare in ventiquattro ore, su uno stesso Paese. Otto virgola nove gradi della scala Richter hanno sollevato la Terra e l'Oceano Pacifico facendo poi esplodere una bomba atomica impropria. Diecimila morti. Eppure, anche se questi morti si triplicassero, sarebbero un decimo di quelli causati da un terremoto più modesto, senza tsunami e senza esplosione nucleare, avvenuto a gennaio dello scorso anno ad Haiti. Solo sette gradi della scala Richter, trecentomila morti. Com'è possibile?
Le proporzioni di una catastrofe evidentemente riescono a diventare relative.
E così guardo, nelle immagini dei telegiornali di tutto il mondo, un'onda marina di dieci metri di altezza invertire la corrente di un fiume e sommergere una città, spostando interi quartieri. E, con tutta la dovuta vergogna, non riesco a non pensare alle somiglianze di questo con il mio "terremoto", con il mio "tsunami", con la mia "bomba nucleare".
Ecco. Un giorno, ormai quasi due anni fa, quando avevo perso tutto ciò che di non materiale si può perdere, ci fu chi pensò di aiutarmi procurandomi un animale. Un animale in quella catastrofe umana. Non posso fare a meno di sorridere di stupore. Come si può, davanti a una crisi esistenziale del genere, pensare di contribuire a limitare i danni con un animale? Quell'animale non contribuì a limitare i danni. Non si limitò a questo. Quell'animale mi ha salvato la vita.

Federico capì. Lui aveva capito tutto di quella mia sciagura umana. Forse fu l'unico a comprendere.
E mi disse: "Secondo me dovresti prenderti un altro gatto". Un altro. Perché uno, il primo, l'avevo perso nel mio cataclisma. E l'avevo cercato tra le macerie, nel freddo e nel silenzio, urlando il suo nome fino a segarmi la gola. Ma ormai era andato: ero stato io a lasciarlo andare. Una vittima sacrificale della mia strage. Un altro morto. E così Federico mi trovò una cucciolata. E mi mise in mano un biglietto con un numero di cellulare e un indirizzo.
Quando vidi Andrea la prima volta, mi sembro brutta. Un po' bianca, un po' grigia, un po' tigrata. Con la punta della coda spezzata. Tenera come può essere un cucciolo di tre settimane, ma indefinibilmente brutta. Restai dieci minuti a guardarla, mentre giocherellava e cascava ogni tre passi. Poi, mi resi conto che io mi sentivo proprio così come lei mi sembrava: brutto, macchiato e senza equilibrio. E che, forse, per questo motivo quella imperfetta pallina di pelo era l'unica vita che poteva condividere il mio vuoto e il mio silenzio. Così la misi in una gabbietta di plastica e montammo in auto.
Non appena si rese conto di essere rinchiusa, cominciò a gemere disperatamente, infilando il piccolo muso tra le sbarre della gabbia in convulsi tentativi di fuga. E mentre cercava la libertà allungando la minuscola zampa e aggrappandosi a qualsiasi cosa fosse fuori da quella cella di plastica, mentre provava inutilmente tra miagolii strazianti a scavarsi la salvezza sul fondo della prigione, io sentii tutto il dolore che stava provando. Sentii lo spezzarsi di ogni singola fibra del suo cordone ombellicale in quello strappo. Ogni goccia di quella disperazione. Infine si arrese. Le accarezzai la zampa per qualche minuto, mentre guidavo verso casa, e lei si addormentò.
Non so se quello è stato un buon destino per lei. Ma cerco di pensare che è stato meglio di altri.
Andrea oggi vive la mia vita. Io vivo la sua. Non parla, ma a volte sembra capire. Lei è solo una bestia, io solo un essere umano. Entrambi siamo "...soltanto due animali...".

mercoledì 9 marzo 2011

Io sono pazzo...

Il primo ricordo che ho dei pazzi si perde nella mia infanzia. Negli anni Ottanta. E’ una stomachevole puzza di sigaretta, una “casa alloggio” che metteva un po’ di paura e gli schiamazzi di persone perlomeno strane. E quel ricordo lo conservo gelosamente. Perché quel mondo, il mondo dei pazzi, ormai lo abito da diversi anni e adesso a quella puzza, a quella paura e a quella stranezza, mi sono assuefatto. Nello stupore di quel ricordo della mia infanzia è nascosta la maniera di guardare il mondo che auspicherei di ritrovare, un giorno.
Adesso invece la pazzia mi pervade. Ce l’ho sui vestiti, nel fegato e negli occhi. Me ne accorgo quando qualcuno mi annusa, o mi chiede come faccio “a fare quel lavoro”, o si stupisce del fatto che io non mi stupisca della diversità. Io i pazzi non li distinguo più, perché sono uno di loro.
No, non è uno slogan.
“Siamo tutti un po’ malati”.
“La normalità non esiste”.
Questi sì che sono slogan. Invece, che io sia uno dei pazzi, è un dato di fatto. I “malati di mente” non sono tutti pazzi. I pazzi non sono tutti “malati di mente”. La malattia mentale tocca tutti in diversa misura, nella assurdità di certe consuetudini delle nostre vite. La pazzia, invece, è una specie di religione. Ha dei riti, delle ricorrenze, dei sacerdoti, anche se non ha nessun comandamento. E i pazzi si distinguono esattamente come si distinguono i cristiani, i musulmani, gli ebrei. I pazzi sì distinguono perché hanno le loro “chiese”, dove i loro “sacerdoti” somministrano loro la “salvezza” attraverso una sorta di “ostia”. E chiunque viva vicino ai pazzi, in qualche modo “impazzisce”, si unge. E riceve in eredità gli stessi sguardi straniti che vengono rivolti a loro, le stesse espressioni di pena. Perché se sei vicino ad un pazzo, un po’ strano devi esserlo pure tu. E se lavori con un pazzo, sei degno di compassione, perché è chiaro che non devi aver trovato di meglio.
E io, allora, sono un pazzo. Figlio di pazzi.
Una mattina, nel terzo millennio, nella metropolitana di Milano, nel Nord dell’Italia, nel cuore dell'Europa, sentii questo dialogo tra due signore.
Prima Signora: “…Ieri sono stata a casa della Sara… (espressione sgomenta)”
Seconda Signora: “Sara? Ma chi?”
P.S.: “Sara, la sorella di Armando…”
S.S.: “Ah sì, Sara… E beh?”
P.S.: “Eh, sai che la Sara ha un figlio… (lunga pausa)”
S.S.: “No, non sapevo avesse un figlio. Non me l’ha mai detto”
P.S.: “Sì, non ne parla mai, sai... (lunga pausa)"
S.S.: "(espressione preoccupata) Ma perché che ha il figlio della Sara?"
P.S.: "Eh... sai...?"
S.S.: "Cos'è gay?"
P.S.: "No, no... Ah, poi non lo so se è pure gay... Sai... E' un po'... (imbarazzata)"
S.S.: "E' drogato?"
P.S.: "No, è uno... (pausa) Un po' così"
S.S.: "Ah... Ho capito... Tipo che parla da solo, dice cose senza senso..."
P.S.: "Sì, Sì... Un po' così..."
Si erano capite. Il pudore, politically correct, nel dare un nome a chi è nella pazzia si è dissolto davanti a tre brevi parole. Un pazzo è semplicemente una persona un po' così.

Come fame di vento...

E' tutta una vita che viaggio, penso e sono dalla parte sbagliata. E' l'unica parte da cui sono capace di andare. L'unico luogo che so abitare. Ma c'è stato un giorno in cui quel luogo, quella direzione, io li ho scelti con tutto me stesso. Io non so raccontarlo quel giorno. Forse non si può raccontare. Perché non si racconta ciò che non si capisce. E quel passaggio di tempo non deve essere capito. Per questo, non deve essere raccontato.
Così l'ho affidato all'anima di un poeta diverso. Lui non scrive versi. Lui legge anime. E' lì che vive, dalla notte dei tempi, la sua poesia.

Come fame di vento

Non risuona
il passo
sui selciati dei giorni.

Anima estranea
capovolta storia.

Di parola fossile
ancora calda
presa all'incendio
d'assenza di fiati
frantumi di specchi.

Si torna al nulla
come fame di vento
per assalti
e agguati.

E non resta che accidia
su morsi di vita.

                                 9-3-2011

                                 Mario Gabriele

martedì 26 ottobre 2010

Dobbiamo parlare...

"Dobbiamo parlare...". Così iniziano i peggiori incubi.
La sensazione che l'argomento del parlare sarà nefasto è insita nella frase: per due persone che vivono un pezzo della loro vita insieme, parlare è un gesto quotidiano, che non si lega mai al verbo "dovere". Dunque se si "deve" parlare ci dev'essere qualcosa di quantomeno brutto da dirsi. E, si sa, non è terribile una fine in sé quanto l'agonia che la precede. Dunque, l'incubo può diventare davvero terrificante, quando il "dobbiamo parlare..." evolve in "ho bisogno di una pausa". Allora l'agonia si protrae a tempo indeterminato come la fase terminale di una malattia. E per colui che attende, il mondo ad un tratto cambia radicalmente colore. La pausa, la mia canzone, è nata in una sola mattinata. Volevo raccontare la fotografia di un attimo della vita di chi attende suo malgrado. Non ho mai subìto, per mia fortuna, la pausa di qualcuno. E ho fatto tutto quello che ho potuto, compreso prendere decisioni drammaticamente avventate, pur di non chiedere a nessuno pause in cui comprendere cose. Ecco perchè la storia di questa mia amica, che invece ha dovuto affrontare questo dramma, mi ha attraversato l'anima come un aratro, finché ne è germogliato questo brano.
La verità è che, umanamente parlando, la parte interessante delle pause è quella che riguarda chi ha chiesto di averne una, più che quella di chi la deve concedere. Pausa di riflessione. E' così che la si definisce. Ho sempre ingenuamente creduto che, chi giunge a fare una simile richiesta, sa bene che quella a cui si appresta non è una vera riflessione e sa anche che la pausa si trasformerà nella fine di quella relazione sospesa. Mi ero convinto che fosse un modo per addolcire la morte al condannato. Poi, ho scoperto che le cose non stanno esattamente così. O almeno non sempre. E' vero, sì, che la "pausa di riflessione" è seguita sempre (anche non necessariamente subito) dalla fine di una storia. Ma non è altrettanto vero che chi chiede la "pausa di riflessione", poi in realtà sia consapevole della sua messinscena. Cioè che finga sapendo di fingere. Ed è anche vero che talvolta la pausa non serve ad addolcire la morte altrui, ma la propria.
Per quanto difficile da comprendere ed odiosa sia questa cosa, quando ci si accorge di aver smesso di amare qualcuno, è sempre troppo tardi. E' tanto tardi da non riuscire più nemmeno a capire il momento in cui l'amore si è spento. Tanto tardi da non poter più capire bene perchè si è spento. Tanto tardi che il non-amore è diventato una consuetudine, un elemento consolidato della propria vita. Per questa ragione, chi smette di amare comincia una tragica, inutile lotta. Comincia a rifiutare aggressivamente, in modi spesso maldestri e nocivi, la propria sensazione di svuotamento, l'idea di aver perso l'essenza della propria vita. Chi non ama più, tenta di vomitare l'idea della fine del proprio amore.
"Non può essere così, ci dev'essere un'altra spiegazione". Questa frase suona come un mantra in quelle menti martoriate. La conosco molto bene. Le immagini, i ricordi, le parole, i visi, della propria storia recente sbattono violentemente e si sbriciolano contro un muro invisibile. E' tutto finito e non si è riusciti nemmeno a rendersene conto. E' tutto finito e non si sa quando, come e perchè.
E così arriva il mostro.
Il senso di colpa.
Il vecchio mantra si trasforma in uno nuovo: "Mio Dio, che cosa ho fatto...". Qui, il popolo dei non-più-amanti si divide, davanti ad un bivio. Si può andare verso una strada in pianura. Rimuovere, reprimere, truccare. Il cervello umano si sbizzarrisce nel trovare contorte elaborazioni positive di questa malsana idea di non amare più. "Mi sono sbagliato: la amo ancora, solo che l'amore si è evoluto in una forma diversa...". Questa la logica più frequentata. La coscienza si placa, il senso di colpa vince, l'equilibrio del mondo è salvo e nessuno, almeno lì per lì, si ferisce.
Altri, invece, scelgono l'altra direzione. L'altra strada, in salita e al buio. Rassegnarsi, affrontare la realtà. E uccidere. La pausa di riflessione fiorisce qui. Davanti agli occhi della propria vittima, di fronte al suo terrore quando ci ha sentiti dire "Dobbiamo parlare...". Ma è difficile sparare a bruciapelo. E' difficile guardare in faccia una persona che muore. Figurarsi se siamo noi la causa della sua morte. Così ogni cosa si annebbia. Non esiste più nessuna risposta giusta e nessuna risposta sbagliata. Solo domande. E quindi, quando il seguito del "dobbiamo parlare..." dovrebbe essere "Io purtroppo non ti amo più...", dalla bocca invece viene fuori un tristissimo "Ho bisogno di una pausa...". E non si mente a chi ci sta davanti, ma a se stessi. Le pause servono solo a rinviare qualcosa. E spesso questo qualcosa è semplicemente il guardarsi allo specchio e dirsi ad alta voce "Ho perso".

PS
Il dipinto di cui parlo nella mia canzone esiste davvero, ma non l'ho mai comprato. Ora è appeso a qualche parete chissà dove. Se qualcuno dovesse credere di averlo trovato, gli sarei grato se mi dicesse dove.

venerdì 22 ottobre 2010

Verso Nord...

I viaggi più belli sono quelli non programmati e non organizzati. Questa è una affermazione decisamente ovvia. Ma chi ha provato davvero l'esperienza di partire conoscendo poco o nulla della destinazione, del percorso e dei propri compagni di viaggio, sa che la bellezza di un viaggio del genere non è così ovvia. Può capitare di partire per così dire "alla cieca" per motivi diversi. Perchè si è molto giovani e non ci si preoccupa dei rischi, perchè si è sulle ali dell'entusiasmo per qualcosa o per qualcuno, o perchè si è costretti a farlo. Quello che accomuna questi viaggi è l'intensità delle emozioni e la profonda traccia che lasciano nella memoria.
La nostra esistenza assomiglia molto a un viaggio improvvisato. Non scegliamo di partire, non sappiamo con chi viaggeremo, non sappiamo quando arriveremo e, per quanto sia difficile da accettare, non decidiamo quasi affatto la nostra destinazione. E se noi poveri umani riuscissimo a vivere questo grande viaggio, sulle ali dell'entusiasmo con cui un adolescente parte per una vacanza non organizzata, tutto della nostra vita avrebbe i colori dell'avventura, la sua intensità e profondissimi ricordi.
Io sono nato e vivo in una parte d'Italia a cui tutti gli italiani danno il nome di un punto cardinale: il Sud. Ma in questo piccolo monosillabo coesistono significati molto più che geografici. Quasi sempre si tratta di significati negativi. Nell'idea di Sud si muovono vicende umane di popoli e culture, davvero più grandi di un semplice punto cardinale. Quello che in Italia chiamiamo Sud è incredibilmente più che una direzione o una zona: il Sud è un luogo della mente.
Qui al Sud, l'idea del viaggio è quasi totalmente, per ragioni logistiche, rivolta al punto cardinale opposto. Noi, qui al Sud, se viaggiamo, di solito andiamo verso Nord. E io, infatti, perlopiù è lì che vado. Quella volta partii, volando sulle potenti ali di un entusiasmo che sapeva di salvezza, di uscita dal buio. Avevo l'energia di chi, inaspettatamente, stava scampando a una fine certa. Il treno che mi portava verso la mia via d'uscita aveva un fascino molto forte. Tagliava l'intero Paese da Lecce a Bolzano in una sola notte tenendo, quasi fino alla fine, il mare alla sua destra e gli Appennini alla sua sinistra. Vicini, che guardando fuori dal finestrino li si poteva quasi toccare. E giungeva in mezzo alle Alpi ogni volta nello stesso momento: all'alba. Un'alba che sapeva di sole, a prescindere dalla metereologia.
E proprio come chi parte non preoccupandosi dei rischi, non avevo nessuna paura. Nonostante non sapessi nulla di quel viaggio. Dove veramente mi stava conducendo, con chi mi sarebbe toccato condividere la strada, che tempo avrei trovato e quanto sarebbe durato. Quel viaggio assomigliò fortemente alla mia vita. Una vita in cui, allora, tutto era davvero Sereno.

giovedì 21 ottobre 2010

Il colore della paura...

I social networks in fondo hanno dilaniato solo quello che restava della nostra già sbrindellata privacy. La privacy è di certo un valore che ritengo, francamente, troppo poco definito nella nostra cultura per poter essere difeso efficacemente. Che cos'è davvero la privacy? E' un pacchetto personale contenente le informazioni su che aspetto hai, dove abiti, la tua età, cosa mangi, cosa dici, con chi sei...? Se fosse veramente questo la privacy, allora non ci sarebbe nulla di eccessivamente rischioso in un fenomeno storico globale come il Facebook. In fondo, lì dentro, si può scegliere liberamente e abbastanza consapevolmente, se non a chi, almeno cosa dire di sé, cosa mostrare, se mentire e quanto. Ma la privacy ritengo sia molto più di questa lista di dati e immagini. E se Facebook, questa geniale invenzione (nel bene e nel male), ha ragione di esistere, è perchè il vero pericolo per la nostra privacy consiste nel nostro desiderio di non averne. Siamo noi che decidiamo di esporre i nostri panni più o meno sporchi nella piazza più grande e affollata possibile. Noi decidiamo di dire chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare. La disquisizione sui motivi di questo patologico esibizionismo moderno la lascio ad altre sedi.
Qui racconterò, invece, di una sera diversa dalle altre. Una sera in cui ho visto su Facebook una foto di lei che ballava con un ragazzo, ad una festa. Per intenderci: non scoprii nulla che non conoscessi già, in quella foto. Sapevo che lei era andata a quella festa, con quegli amici e con quel ragazzo. Una situazione perfettamente legittima. Quello che mi accadde davanti a quell'immagine, tuttavia, fu totalmente nuovo per me.
Dirò ora, conscio di suscitare scetticismo in alcuni, che l'emozione della gelosia non è mai appartenuta al mio DNA. Per una questione ideologica innanzitutto: è un'emozione che determina direttamente varie forme di limitazione della libertà di essere. E lei, la libertà, è il primo valore nella mia scala. Ma dacché si tratta qui di emozioni davvero ancestrali e che hanno ben poco di ideologico, devo specificare che nemmeno al livello chimico la gelosia mi è mai appartenuta. Mi sono, piuttosto, trovato nella bizzarra situazione di dover giustificare "come mai" non ero "naturalmente" geloso delle mie donne. E tuttavia il flusso potente di emozioni che provai quella famosa sera, davanti quella famosa immagine, è molto attiguo a quella che viene comunemente definita gelosia.
Io adoravo le sue mani curate. E l'iride dei suoi occhi, capace di cambiare incredibilmente colore a seconda di ciò su cui essi si posavano, passando dal verde, all'azzurro, al castano chiaro. E amavo il modo in cui guardava, non solo me: lei guardava con penetrante desiderio tutto il mondo. In quell'immagine su Facebook, quella sera, ognuna di queste cose mi era chirurgicamente asportata, sottratta, e assegnata gratuitamente ad un altra persona. Una persona che era palesemente quanto di più lontano e diverso ci fosse da me. Le sue mani in quelle di un altro, il desiderio colorato delle sue iridi rivolto ad un altro. Le sensazioni che provai le ricordo singolarmente, nell'ordine di apparizione. Dolore. Umiliazione. E poi, direttamente e senza gradazioni intermedie... Paura. La mia paura. Anzi, credo sarebbe più giusto specificarla come: fobia. Cioè: paura irragionevole.
Il sonno sopraggiunse solo all'alba seguente. Quando, di prepotenza, l'evidenza di ciò che allora mi legava a quella donna e che legava lei a me, si fece strada tra i fantasmi e annegò lentamente tutti quegli incubi, tra i versi di una mia canzone. E allora, in un tempo piccolo, tutto quel terrore si dissolse. "...Come la nebbia ritorna aria...".